Posto le bellissime parole, purtroppo non mie, ma dello scrittore Matteo Rinaldi, perché mi rispecchio molto in quello dice e perché "anch'io sono un Lambrettista..."
Per la serie i grandi amori della mia vita ecco a voi la Lambretta, moto che è la sintesi dell’Italia intera: geniale, pasticciona, perdente, indistruttibile.
La Lambretta non è una Vespa. Meglio partire da qui perché mezza Italia non le distingueva nemmeno negli anni Sessanta, figurarsi ora. In realtà è impossibile sbagliare: la Vespa non tiene la strada ma in compenso non si ferma mai, corre, non vibra, trovi i ricambi anche in Groenlandia. Tanto basta per adorarla.
La Lambretta è diversa: tiene la strada ma in compenso non va quasi mai, corre poco, vibra come un martello pneumatico e non trovi i ricambi nemmeno a Lambrate. E tanto basta per adorarla.
Negli anni Ottanta, quando sono diventato un Lambrettista, la scelta era obbligata. Milioni di Vespe Piaggio dominavano le strade italiane: un quarto erano terribili cinquantini come la famosa Vespa 50 Special, truccati e rifatti che neanche un moderno premier. Un quarto erano Vespe ET3, che sullo stesso telaio dei cinquantini montavano un portentoso motore 125 con tre travasi e filavano come razzi. (Mai capito cosa fossero i travasi e secondo me neppure i Vespisti più incalliti. Ma era un’epoca così).
Il quarto più pericoloso erano le Vespe Px, le ultime arrivate. Grosse ma snelle, squadrate ma eleganti. Gioielli: correvano, consumavano poco e almeno un paio di volte l’anno riuscivi a restare in piedi dopo una frenata sotto la pioggia. Miracoloso.
L’ultimo quarto erano le Vespe più vecchie: le fenomenali GS, le Rally e un’infinità di modelli che allora ti portavi a casa con trecento mila lire.
A me stavano un po’ sulle balle. Le ET3 erano diventate le moto dei fighetti, i Px dei funghi. I fighetti almeno erano in calo, perché cominciavano a subire il fascino delle auto e in particolare delle prime odiose Golf GTI nere.
I funghi tenevano botta. Sui Px attaccavano enormi adesivi col fricchettone chitarrato spalle al sole. Poi montavano poderose motoradio sul bauletto con cui sparare il giovane Vasco a tutto volume. Quando ti superavano, prima sentivi Ti voglio beeeeene lascia stare il vestito e poi il Vrooom rotondo e potente del motore Px.
Mi buttai sulla Lambretta imitando i fratelli Graziani – miei amici tuttora – che mi presentarono lo scooter con queste sagge parole: “Questa è una Lambretta: motore centrale, grande tenuta di strada, parafango anteriore che non gira assieme alla ruota. E soprattutto: è la moto dei murari (muratori ndr) e va moooolto meglio di quei bidoni della Piaggio“. Non era vero ma ci credetti immediatamente. E poi non sapevo neppure dove fosse il motore. Anzi, non sapevo nemmeno cosa fosse, un motore. Di sicuro la Lambretta era più magra, più filante, meno plasticosa. Quando Antonio mi presentò la sua, la guardammo, carezzammo e annusammo attentamente: “Che buon profumo di ferro minerale – disse lui – Non senti l’odore del ferro anni Sessanta, lavorato da operai con le mani grosse, fieri del loro lavoro?” Cazzo se lo sentivo.
Cercai e trovai la mia Lambretta in un garage a Settecà. Era il 1984. Centocinquanta mila lire e divenni proprietario – col cuore che mi batteva forte – di una Lambretta 150 LI del 1964, rossa, praticamente perfetta.
In tre giorni non era più rossa né perfetta. La colorai con un moderno e combattivo verde militare la prima settimana. Con un cattivissimo grigio-verde mimetico la seconda. Con un romantico blu notte la terza. Con un filante rosso ferrari la quarta. Quando lo strato di colore cominciò a superare lo spessore del materasso del letto, decisi di limitarmi. E magari di imparare a portarla.
Portarla è un modo di dire. La Lambretta non si portava. Ti portava. Era come i muli dei film western: faceva quel che voleva lei. Si accendeva una volta su tre. Le altre due dovevi spingerla finché il sudore ti colava nelle scarpe. Inoltre si spegneva a suo totale piacimento. Preferibilmente mentre sorpassavi un tir e sull’altra corsia sopraggiungeva una corriera.
Bruciava una luce di posizione ogni tre giorni. Quasi sempre a cento metri da una pattuglia di vigili in annoiata attesa. I cavi del freno, della frizione, dell’acceleratore e del cambio saltavano a piacimento e senza alcuna ragione.
Imparai molte cose in quel periodo. A frenare con le suole come Pronto Soccorso, il protagonista (non a caso lambrettista!) di una celebre storia di Stefano Benni. A passare davanti alle pattuglie premendo leggermente il freno per accendere la luce di stop millantandola posizione. A guidare senza la manopola dell’acceleratore, tirando direttamente il filo spezzato come si fa con le redini di un destriero.
Ma soprattutto imparai a guidare. Le Vespe erano più veloci, scattose, moderne e numerose. Per tener testa a un Px, nell’asse principale vicentino da Corso Padova a viale Verona, non c’era alternativa: dovevo guidare con la grinta di Ayrton Senna e la testa di Alain Prost.
La sfida col Vespista iniziava al semaforo. Un rapido scambio di sguardi dava il via. Il vespista si preparava con le classiche accelerate: Vrum! Vruuum! Il lambrettista no. La Lambretta era delicata e permalosa: si sarebbe spenta subito. Scansionavo rapidamente il traffico davanti a me e calcolavo: “Dopo la 131, dopo la 2 cavalli, dopo la Escort c’è il 5. Il 5 fa Villaggio del Sole – Anconetta: quindi all’incrocio svolterà a destra per viale IV novembre. Mumble mumble…”
Semaforo verde, via! Passavo la 131 a destra, la 2 cavalli pure, poi scartavo a sinistra e passavo mentre il Px, sparato e ignaro sulla destra, inchiodava per non spiattellarsi contro il 5 in sterzata.
Battuto, fottuto e umiliato. Imparassero i percorsi dei bus invece di rincoglionirsi coi Black Sabbath.
In Lambretta le ragazze non salivano volentieri. Sono sempre un po’ gelose le donne. Capivano che il tuo vero amore era di ferro minerale, non di carne. E poi le vibrazioni erano davvero eccessive. Antonio diceva, ammiccando, che la sella aveva un piacevole effetto vibratore, ma non era vero. Magari! A una compagna di scuola che avevo accompagnato a casa, le vibrazioni mandarono in frantumi gli occhiali da vista.
Con la mia terza Lambretta raggiunsi Taormina, in Sicilia, nel settembre 1989 (toh, esattamente vent’anni fa), da solo, dopo un viaggio meraviglioso: cinquanta all’ora di media, costa tirrenica all’andata, costa adriatica al ritorno.
Tutti gli odori dell’Italia, chilometro dopo chilometro. Il magnifico motore 150 del 1964, recuperato da una Lambretta abbandonata e montato pezzo per pezzo senza la minima competenza, aveva grippato già all’andata, prima di Roma, con un rumore terrificante. Ma era ripartito senza tante storie dopo un quarto d’ora di raffreddamento e di coccole. A quaranta all’ora ero arrivato a Reggio Calabria, conquistato il traghetto e preso possesso della Trinacria.
Mi arresi alla modernità dopo centoventi forature, sessanta cavi spezzati, quarantanove esplosioni del motore, dodici donne perdute per sempre. Ma da allora continuo a combattere, difendendo la qualità Lambretta in mostruose discussioni contro i Vespisti, sempre troppo numerosi e troppo attrezzati.
Un giorno conobbi un restauratore di moto d’epoca, Lambrettista purosangue ma intelligente. Ero nella sua officina. Mi feci coraggio e sussurrai: “Sono un Lambrettista anch’io ma… secondo me la Vespa è meglio“. Lui si guardò attorno per assicurarsi che fossimo soli. Chiuse la porta a chiave ed estrasse due scatole di legno da un cassetto. Nella prima c’era il cuore di un motore Vespa. Nella seconda un cuore Lambretta. Entrambi erano smontati pezzo per pezzo.
“Conta i pezzi della Vespa – disse – sono quindici. E adesso conta i pezzi Lambretta”. Novantasei! Allargò le braccia: “La Vespa è semplicità assoluta, minor costo, minor manutenzione, sviluppo più semplice e mille altri vantaggi. Come abbiamo fatto a resistere, tenendo loro testa per vent’anni, è un miracolo“.
È stato un miracolo, davvero. Ma la Lambretta era viva. Superata, perdente, pasticciona, complicata, geniale ma viva. Nemmeno alla mia prima chitarra, nemmeno al mio primo orsacchiotto ho mai voluto tanto bene.
Matteo Rinaldi settembre 2nd, 2009
A voi i commenti fratelli Vespisti...
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